Audizione Comitato Referendum Basilicata presso I CCP Affari Istituzionali del Consiglio Regionale della Basilicata: Relazione del Comitato

Craco

La Basilicata non deve soccombere

Il no del Comitato Referendum Basilicata: “Il parere dei cittadini lucani deve contare come quello dei lombardi e veneti. Bisogna difendere gli interessi della nostra terra”

La prima Commissione consiliare (Affari istituzionali) del Consiglio regionale della Basilicata, presieduta da Gianuario Aliandro (Lega), si è riunita questo pomeriggio presso l’Aula del Parlamentino del Consiglio regionale, in via Verrastro.

Nel primo punto all’ordine del giorno, sono stati approvati a maggioranza i verbali delle sedute precedenti. Il consigliere Cifarelli ha espresso parere negativo al verbale riguardante la seduta del 12 settembre, che aveva esaminato le candidature per la nomina del Presidente dell’Ente di Gestione del Parco Naturale regionale del Vulture e del Presidente dell’Ente di Gestione del Parco Archeologico Storico Naturale delle Chiese Rupestri del Materano.

L’organismo consiliare ha, poi, proceduto all’esame dell’atto amministrativo n. 349/2023, attinente alla sostituzione e alla nomina del componente del Consiglio direttivo dell’Ente di gestione del Parco archeologico, storico naturale delle chiese rupestri del materano, in rappresentanza del Comune di Montescaglioso. Il presidente Aliandro ha descritto il contenuto dell’atto, riguardante “la nomina dell’ingegnere Monica Ditaranto quale componente del Consiglio direttivo dell’Ente Parco, in rappresentanza del Comune di Montescaglioso, in sostituzione di Anna Cifrese”.

La prima Commissione consiliare, inoltre, si è espressa sulla delibera della Giunta regionale n. 372 del 23 giugno 2023, relativa alla nomina del Direttore generale dell’Azienda sanitaria di Potenza ASP. L’organismo consiliare, nel corso della seduta, ha licenziato, con voto favorevole a maggioranza, l’atto relativo alla “nomina a Direttore generale dell’Azienda sanitaria del capoluogo lucano del dottor Antonello Maraldo, il cui incarico avrà una durata di tre anni”.

I lavori della Commissione sono proseguiti con l’esame dell’atto n. 356/2023, inerente alla nomina del Direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Puglia e Basilicata. Nello specifico, il presidente Aliandro ha illustrato l’atto che decreta “la nomina del dottor Antonio Fasanella quale Direttore dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Puglia e Basilicata per un periodo pari a cinque anni decorrenti dalla data di insediamento”.

È seguita l’audizione del Comitato Referendum Basilicata, che ne aveva fatto espressamente richiesta, “in merito all’autonomia differenziata, ai sensi dell’art. 19 dello Statuto regionale riguardante il referendum consultivo”. Il Comitato ha presentato una relazione esplicativa, dal titolo “La Basilicata non deve soccombere”, con l’obiettivo di esporre alla Commissione “le ragioni dell’iniziativa referendaria con i relativi quesiti”. Il documento spiega le ragioni per cui il Comitato intende “raccogliere le firme per indire dei referendum consultivi in base all’art. 19 dello Statuto regionale finalizzati a far esprimere i lucani sull’autonomia differenziata e sulle sue conseguenze”.

L’ingegner Pietro De Sarlo ha sintetizzato le finalità del Comitato: “Riteniamo che una materia così importante, come quella dell’autonomia differenziata debba trovare un’ampia discussione democratica visto che gli esiti di questa norma, se approvata, peseranno sul futuro di intere generazioni della Basilicata e del Sud in genere. Il referendum consultivo in materia di autonomia differenziata fu indetto dai Presidenti delle Regioni Veneto e Lombardia il 22 ottobre 2017, per avviare la richiesta di autonomia differenziata, che trova sbocco nell’attuale ddl Calderoli: il parere dei cittadini lucani deve contare come quello dei lombardi e veneti. Vi chiediamo, pertanto, quali rappresentanti istituzionali, di difendere gli interessi di questa terra”.

Ha rimarcato la posizione del Comitato, a nome anche degli altri componenti, Valentino Romano: “Vogliamo esprimere il dissenso al disegno di legge sull’autonomia differenziata. Siamo favorevoli a un’idea di federalismo che parta dal basso e coinvolga le comunità locali, riallacciandoci al pensiero di Gaetano Salvemini”.

Nel corso del dibattito è intervenuto, per il Comitato, l’ex consigliere regionale, Enzo Acito, sostenendo come “l’autonomia differenziata sia stata, di fatto, già anticipata nella recente riforma del Codice degli appalti”.

I consiglieri regionali Sileo e Quarto hanno rilevato “l’importanza della relazione del Comitato, frutto di un’analisi attenta e che merita uno studio approfondito da parte della Commissione”, sottolineando che “pur essendo favorevoli all’autonomia differenziata, l’attuazione di questo percorso avrebbe necessariamente bisogno di una classe dirigente più che virtuosa, capace di garantire, anche nelle regioni più piccole, le stesse opportunità che ci sono negli altri territori italiani”.

Il consigliere Giorgetti ha rimarcato la sua “contrarietà all’autonomia differenziata”. “Sono tra i sottoscrittori della proposta del Comitato – ha affermato Giorgetti – poiché ritengo che la nostra regione ne sarebbe molto svantaggiata”. Infine, il consigliere Leggieri, nel ringraziare il Comitato “per aver fornito una documentazione puntuale con proposte e quesiti”, ha delineato l’opportunità di “mettere in campo un confronto sull’argomento che coinvolga l’intero Consiglio regionale”.

Hanno partecipato ai lavori della prima Commissione consiliare, oltre al presidente Aliandro, i consiglieri regionali Bellettieri (FI), Quarto (FdI), Sileo e Giorgetti (Gruppo Misto), Polese (Iv-RE), Cifarelli (Pd), Leggieri (M5s).

MBL
  • LA RELAZIONE DEL COMITATO REFERENDUM BASILICATA

Premessa

Nel ringraziare il Presidente e l’intera Commissione per aver convocato la odierna audizione al fine di agevolare la comprensione dei temi referendari da noi posti in materia di Autonomia Differenziata abbiamo ritenuto opportuna, oltre all’esposizione orale, la formulazione e la redazione del presente documento scritto che viene fornito sia in forma cartacea sia in forma digitale. Speriamo con questo di aver fatto cosa gradita all’intera Commissione, che meglio potrà seguire le nostre argomentazioni, e agli Uffici incaricati della verbalizzazione.  Chiediamo la messa agli atti del presente documento.

Le premesse culturali e storiche del progetto di Autonomia Differenziata

Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno D’Italia, in sostituzione del Regno di Sardegna, e l’Italia, almeno in apparenza, fu unita.

Il progetto Unitario nacque molto prima e l’accelerazione finale iniziata con le guerre napoleoniche e, con un processo a volte discontinuo con incertezze di percorso e incoerenze di forme e sostanze, si concluse 60 anni dopo.

Il progetto autonomista / secessionista di alcune regioni e forze politiche è iniziato 40 anni fa e, sottotraccia, le volontà disgregatrici della Unità Nazionale permangono.

Le trame risorgimentali e le trame separatiste

Giusto per fare un piccolo florilegio delle trame risorgimentali ricordiamo la Repubblica Napoletana nel 1799, il parlamento delle Due Sicilie nel 1820  e ancora nel 1848, mentre, sempre nel 1848, Vittorio Emanuele II, succeduto al Re Tentenna Carlo Alberto, inviava i bersaglieri a Genova a sedare con sangue, stupri e terrore il governo autonomo cittadino proclamato dai mazziniani. Qui si posero le radici di uno Stato violento, che alla sete di giustizia sociale del brigantaggio rispose con gli stessi strumenti utilizzati a Genova, con una violenza a cui i Borbone non avevano neanche lontanamente pensato per sedare le varie rivolte sociali. Stato che nacque portando in sé l’origine del fascismo, nato dalla saldatura tra gli interessi del Nord borghese e industriale e quelli del latifondo al Sud e che vide protagonista la violenza, come sistema per risolvere i conflitti sociali, non solo a Genova ma anche a Pietrarsa nel 1863 e a Milano nel 1898 con Bava Beccaris .

C’è stato persino un momento in cui si pensava che i Borbone, e il Regno delle Due Sicilie, potessero essere gli unificatori del Bel Paese, tanto che Giuseppe Verdi scrisse l’inno La Patria in favore di Re Ferdinando II. Sotto traccia i comitati carbonari, la massoneria, e tante piccole e grandi iniziative che sfuggivano ai radar della maggioranza della popolazione.

Così come per l’Unità d’Italia ci vollero 60 anni di lavorio sotterraneo non si può parlare di Autonomia Differenziata senza riconoscerne le origini nella matrice secessionista e antimeridionalista nata 40 anni fa con la Lega Nord sui prati di Pontida quando si propagandava la secessione della Padania dal resto d’Italia o, almeno, come affermava Giancarlo Pagliarini, parlamentare della Lega Nord dal 1992 al 2006 e Ministro del bilancio e della programmazione economica dal maggio 1994 al gennaio 1995 durante il primo Governo Berlusconi, proclamando la necessità di una Italia a due velocità con due monete diverse: la lira del Nord e la lira del Sud.

La visione antimeridionalista era evidente nei raduni leghisti sui prati di Pontida o tra i riti dell’ampolla consumati tra il Moncenisio e la Laguna Veneta, i giochi celtico padani a suon di cazzotti in faccia e tiri alla fune ritmati da slogan come: “ammazza un terrone risparmia un milione” o “Forza Etna” e altre amenità  del genere. Il 9 maggio 1997 un gruppo di separatisti veneti occupò con un ‘Tanko’, rudimentale carro armato montato su un trattore, piazza San Marco a Venezia e le bandiere italiane venivano bruciate nelle piazze del Nord. Qualche malversazione come quelle che costrinse il Trota, figlio di Umberto Bossi, alle dimissioni da consigliere regionale lombardo, e il fallimento della Banca Padana ha frenato l’immagine ‘diversa’ del Nord e della Lega Nord ma gli autori di queste prodezze continuano da 40 anni a coltivare un disegno secessionista dove ‘ognuno è padrone a casa propria’ e dove finalmente si potrà realizzare il ‘canale d’Africa’ che separa il Sud dal nord Italia e dove i coccodrilli mangiano i terroni che cercano di attraversarlo.

A queste ‘correnti’ di pensiero non fu estraneo, anzi ne fu protagonista, Roberto Calderoli che si sposò in prime nozze con rito celtico: non riusciamo a ritenere che si sia trasformato in un fervente meridionalista.

Tutto questo senza tema del ridicolo e senza che la società civile e il ceto intellettuale e dirigente del Paese reagisse. Anzi, il responsabile economico protempore del PD, Emanuele Felice, mandava nel 2013 alle stampe un libro dal titolo impegnativo, Perché il Sud è rimasto indietro, dove si mettevano insieme i più triti luoghi comuni sulla natura antropologica del divario e si invitavano i ‘terroni’ a selezionare meglio la propria classe dirigente perché con tutti i guai che aveva il Nord o il Sud se la cavava da solo o amen.

Con tutte le critiche che si possono fare ai politici del Sud ci pare che il fatto che il ceto dirigente del Sud sia peggio di quello del Nord sia tutto da dimostrare. Oppure pensate sul serio che i presidenti Occhiuto e Bardi siano peggio di Fontana, Formigoni o Zaia oppure che Manfredi sia peggio di Sala?

La vera differenza tra i politici del Nord e quelli del Sud, rectius tra la classe dirigente del Nord e quella del Sud, è che al Nord nessuno si vergogna di difendere gli interessi del proprio territorio, al Sud sì.

Tanto che nella riunione del 30 aprile 2015, quando la commissione bicamerale sul federalismo fiscale doveva approvare i coefficienti perequativi previsti in Costituzione e Giorgetti, attuale ministro dell’economia e Finanza, spaventato dal loro costo chiese la secretazione degli atti, nessun deputato e senatore del Sud, membro della commissione, era presente.

Nel 2010 Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume e dell’Osservatorio del Nord Ovest, struttura della Università di Torino, in un saggio che fece epoca, Il sacco del Nord, a pagina 143 del suo libro sosteneva che “Il tenore di vita del cittadino del Nord vale 26.714 euro, quello del cittadino del Sud 30.138, circa il 13% in più. Conclusione il divario c’è ma a favore del Sud”. Ma come arrivava a queste conclusioni Ricolfi? Il tenore di vita lo definiva come sommatoria di tre componenti: il potere di acquisto, al Sud diceva che era inferiore dell’11% rispetto al nord; i consumi pubblici, affermava che al Sud erano inferiori del 29,6%; ma attribuendo un valore al tempo libero, terza componente che misura il tenore di vita  e che al Sud abbonda per la disoccupazione e la mancanza di opportunità, ecco che la somma si ribalta: al Sud beneficiano di 7.000 euro l’anno in più come controvalore del maggior tempo libero che vale allo stesso modo per un disoccupato di Scampia o un amministratore di banca in via Brera a Milano.

Si tratta di una palese sciocchezza, ma il titolo del libro fece breccia, probabilmente pochi lo lessero ma occupò dibattiti e influenzò la pubblica opinione in modo significativo e il titolo fu un pretesto per tutte le fantasiose denigrazioni del Sud e dei suoi abitanti.

Entrambi i libri dicevano la stessa cosa: del Sud non se ne può più e la causa dei suoi mali sono i meridionali.

Un lungo cammino verso l’Autonomia Differenziata

Con queste premesse il 7 ottobre del 2001, promosso da un esausto governo di centrosinistra, si tenne un referendum costituzionale di modifica del Titolo V che prevedeva la sostituzione di 7 articoli (114, 116, 117, 118, 119, 120, 127), la modifica di 2 articoli (123, 132) e l’abrogazione di 6 articoli o disposizioni (115, 124, 125 comma 1, 128, 129 e 130).

In sintesi si ridefinivano le materie rientranti nella potestà legislativa esclusiva e/o concorrente dello Stato e delle Regioni. Inoltre si abolivano istituzioni come il Commissario del Governo, la facoltà per il Governo di sollevare, rispetto alle leggi regionali, questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta, o questioni di merito dinanzi alle Camere, innescando in tal modo un controllo di tipo preventivo, restando soltanto un controllo di tipo successivo e per soli motivi di legittimità; aboliva il controllo di legittimità, da parte dello Stato, sugli atti amministrativi della regione (esercitato da un’apposita Commissione di controllo); aboliva il controllo, da parte della Regione, sugli atti delle Province e dei Comuni (esercitato dal CORECO).

Votò il 34% degli aventi diritto e fu approvato con il 64% dei voti scrutinati. In pratica fu approvata dal 21% degli aventi diritto. Un quinto della popolazione italiana ha approvato una modifica così scellerata da influenzare negativamente tutto il Paese.

La modifica maggiore riguardò le materie su cui si può chiedere l’Autonomia Differenziata, che sono:

  1. Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
  2. Commercio con l’estero;
  3. Tutela e sicurezza del lavoro;
  4. Istruzione (fatto salvo per l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con l’esclusione dell’istruzione e della formazione negli istituti scolastici professionali);
  5. Professioni;
  6. Ricerca scientifica e tecnologica;
  7. Sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
  8. Tutela della salute;
  9. Alimentazione;
  10. Ordinamento sportivo;
  11. Protezione civile;
  12. Governo del territorio;
  13. Porti e aeroporti civili;
  14. Grandi reti di trasporto e di navigazione;
  15. Ordinamento della comunicazione;
  16. Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;
  17. Previdenza complementare e integrativa
  18. Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
  19. Valorizzazione dei beni culturali e promozione e organizzazione di attività culturali;
  20. Valorizzazione dei beni ambientali;
  21. Casse di risparmio e casse rurali;
  22. Aziende di credito a carattere regionale;
  23. Enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

La domanda che sorge spontanea è come si potrà parlare ancora di Stato Unitario se tutte le Regioni dovessero chiedere l’Autonomia su tutte le 23 materie previste. Un esempio lo abbiamo in questi giorni quando il Governo sulla questione dei migranti deve negoziare sia in Europa sia con le 21 regioni e province autonome per la collocazione dei centri di accoglienza.

Un’altra domanda è su quali materie, vista l’adesione della Regione Basilicata al progetto Calderoli, la Regione intende chiedere l’autonomia e con quali risorse una regione piccola come la Basilicata riuscirà a farvi fronte.

Per anni e con nomi diversi, ricordate la devolution?, la questione della autonomia rimase sottotraccia fino alla svolta dei referendum consultivi di Lombardia e Veneto del 22 ottobre del 2017.

Il referendum lombardo aveva come quesito:

“Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”

Il referendum, fatto sulla base dell’articolo 52 dello Statuto Regionale, non prevedeva quorum per la sua validità ed era stato deliberato dal Consiglio Regionale.

Fu votato dal 36% degli elettori lombardi.

Il referendum veneto aveva questo quesito:

Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”

Il referendum fu fatto sulla base di  un decreto emanato direttamente dal Presidente della Regione veneta Luca Zaia.

La data fissata, concordata con la Lombardia, aveva, secondo Luca Zaia, un valore altamente simbolico della volontà separatista poiché ricadeva nell’anniversario del plebiscito di annessione del Veneto al Regno d’Italia potendosi così riaffermare la “genetica voglia di autodeterminazione del popolo veneto”.

Il referendum fu approvato dal 57% dei cittadini.

Il fatto che entrambi i referendum ebbero origine da un impulso politico dei vertici regionali la dice lunga sulla necessità di questi vertici di trarre forza dalla volontà popolare, evidenziando che le spinte secessioniste e separatiste traevano forza dal popolo.

In realtà l’adesione in Lombardia fu scarsa e modesta in Veneto. Ma su un tema così importante i presidenti di regione Fontana e Zaia chiesero e ottennero un mandato specifico.

Chiediamo che anche in Basilicata e in tutte le regioni del Sud e del Nord si sia chiamati ad esprimersi su un tema che scuote alla base i vincoli unitari in modo che sia chiara a tutta Italia la posta in gioco.

Ai referendum seguirono dei preaccordi tra alcune regioni e il governo centrale.

In particolare il 28 febbraio 2018 tra il Governo Gentiloni, ormai a fine mandato e un mese prima delle elezioni politiche, e le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto furono firmati gli accordi preliminari in merito all’Autonomia Differenziata.

Il 28 aprile 2022 il ministro pro tempore degli Affari Regionali, Mariastella Gelmini, anche qui con un governo ormai agli sgoccioli, presentò il DDL sulla autonomia differenziata che, come ricordò il Presidente Mario Draghi nel suo ultimo discorso al Senato, faceva parte dei programmi residui del governo.

In pratica tutto l’arco parlamentare ha giocato superficialmente e colpevolmente su una materia di enorme delicatezza.

Il residuo fiscale

A giustificare le richieste di autonomia differenziata del Nord si è sempre utilizzata, impropriamente, l’espressione “residuo fiscale”.

Il tema sempre riproposto è che le regioni del Nord ad elevato PIL finanziano il Sud ma che questo finanziamento di ‘solidarietà’ deve avere un limite.

A questo punto occorre fare chiarezza sul significato di Residuo Fiscale. Questo venne concettualizzato dal premio Nobel del 1986 James Buchanan, nel suo saggio Federalism and fiscal equity.

Con questo termine si intende la differenza tra quanto i singoli individui forniscono al finanziamento pubblico e quanto ricevono in termini di spesa pubblica.

Poiché il presupposto di ogni comunità politica o sociale, piccola a piacere, è quello dell’omogeneo del trattamento in tutta la comunità delle persone a parità di reddito, ne consegue, secondo Buchanan,  che in qualsiasi parte di essa l’individuo decida di risiedere riceverà lo stesso trattamento. Il residuo fiscale maggiore di un territorio deriva semplicemente dal fatto che in quel territorio per vari motivi sono concentrati individui con redditi più elevati.

Questo, secondo Buchanan, giustificava il differente residuo fiscale tra i vari Stati degli USA e dal punto di vista etico il trasferimento di risorse tra gli Stati più ricchi e quelli più poveri. Il residuo fiscale è un diritto degli individui, e in una unica comunità politica la mutualità e solidarietà è tra individui e non tra i territori. Così come la tassazione riguarda gli individui e non i territori. Mutatis mutandis questo vale anche per le regioni italiane, per le province all’interno della stessa regione, per le città all’interno della stessa provincia, per i quartieri all’interno della stessa città e persino all’interno di un singolo condominio.

Se si mette in discussione questo principio non ha più ragione di essere la comunità nazionale o la comune amministrazione di un condominio. Tant’è che sui principi di uguaglianza si basano tutte le Costituzioni e nessuna Costituzione può prevedere che alcuni abbiano diritti superiori degli altri in base alla frazione di territorio in cui risiedono. Quindi utilizzare il residuo fiscale nei termini con cui è comunemente utilizzato per giustificare l’autonomia differenziata significa proporre la secessione, oltre a una manifesta incapacità culturale. A riprova, se su questa base si chiede l’autonomia differenziata regionale, poi qualcuno chiederà quella provinciale, quella comunale quella di quartiere ecc. e viene meno qualsiasi sentimento di comunità.

Un esempio pratico per chiarire la questione.

Prendiamo un pensionato che risieda in un comune della Val Brembana e che prende 2.000 euro di pensione al mese. Se decidesse di trasferirsi in un altro comune italiano, per esempio della Val D’Agri, dovrebbe avere, in base ai principi del residuo fiscale, lo stesso diritto a essere curato e più o meno gli stessi servizi pubblici a cui è abituato. Però come sappiamo dalla pratica corrente non è così, perché in Lombardia si possono utilizzare economie di scala e di scopo rispetto alla Basilicata, che è grande la metà del Veneto e ha un decimo dei suoi abitanti, e quindi, sul piano teorico, si dovrebbe spendere di più in Basilicata che in Lombardia per dare lo stesso servizio sanitario.

Se poi nel comune della Val Brembana, che ipotizziamo abbia 1.000 abitanti, come l’ipotetico comune della Val D’Agri, risiedessero 100 pensionati a 2.000 euro al mese e nel comune della Val D’Agri solo 50 a 500 euro al mese, nel comune della Val Brembana entrerebbero ogni mese 200.000 euro di denaro fresco con ovvie conseguenze sulle produzioni e servizi locali (p.e. frutta e verdura o badanti) e quindi sul PIL mentre nel comune della Val D’Agri solo 25.000 euro. Questo giustifica un PIL decisamente minore, ceteris paribus, nel comune della Val D’Agri.

Nella nostra pratica corrente sappiamo benissimo che tanti emigrati tornerebbero volentieri al proprio comune di origine ma non lo fanno per timore della scarsa qualità della assistenza sanitaria e dei servizi pubblici. Questo, come abbiamo visto, incide anche sul PIL.

La verità sulla spesa pubblica

Tutto il dibattito che si è sviluppato sulla Autonomia Differenziata parte dal presupposto che al Sud si drenino risorse enormi a fronte di nessuna produzione di ricchezza e questo nonostante i tanti interventi straordinari a favore del Sud.

È proprio grazie al dibattito sui LEP, ossia Livelli Essenziali di Prestazione, che sta  venendo in luce una realtà completamente diversa.

Il sillogismo dell’attuale DDL Calderoli dice che per fare l’autonomia differenziata occorre garantire gli stessi diritti sociali e civili in tutto il Paese. Svimez osserva che per farlo occorrono almeno 100 miliardi anno, questo implica che già oggi non sono garantiti gli stessi diritti civili e sociali in tutto il Paese nell’omertoso silenzio di stampa e classe dirigente e vertici delle Istituzioni … da sempre.

Occorre quindi smentire alcuni luoghi comuni da cui nasce il progetto della Autonomia Differenziata e lo facciamo grazie ai dati dei Conti Pubblici Territoriali prodotti dalla Agenzia per la Coesione Territoriale, voluta da Carlo Azeglio Ciampi e vigilata direttamente dal Presidente del Consiglio, che pubblica ogni anno i dati della spesa pubblica ripartita per regione. Questi contengono una serie storica scorrevole di 10 anni, sono consultabili con semplici query, e dettagliano la ripartizione di oltre 1.109 miliardi di euro per il 2021. Le spese monitorate rappresentano il 100% della spesa pubblica corrente.

Il Nord produce di più e deve avere di più?

A parte la legittimità costituzionale di una affermazione del genere occorre dire che già oggi è così. Nel grafico seguente abbiamo messo in correlazione il PIL, in ascisse, e la Spesa Pubblica pro capite corrente, in ordinate, del 2021. L’indice massimo di correlazione è 1, quello minimo 0. Quindi un indice di correlazione di 0,75 indica una correlazione elevata e nello specifico ci dice che già oggi dove c’è PIL maggiore c’è spesa pubblica maggiore.

Se dividiamo il grafico della figura in quatto quadranti, in cui il primo quadrante in alto a sinistra, rappresenta l’area dove la spesa pubblica media per abitante è superiore alla spesa media Nazionale mentre il PIL è inferiore alla media, vediamo che non c’è nessuna regione. Quindi? Nessuna regione può essere classificata come regione che approfitta delle altre regioni.

Il secondo quadrante, in alto a destra, rappresenta l’area dove sia il PIL sia la spesa pubblica sono sopra la media nazionale, procedendo in senso orario nel terzo quadrante abbiamo le ragioni che hanno un PIL superiore e una spesa pubblica inferiore alla media nazionale. In questa area troviamo solo due regioni, Toscana e Veneto, ma per importi trascurabili. Nel quarto e ultimo quadrante sia il PIL sia la spesa pubblica sono inferiori alla media nazionale. Quindi dove c’è la spoliazione predicata del Sud nei confronti del Nord? Dove è il ‘sacco del Nord’ propagandato da Ricolfi e alla base della Autonomia Differenziata?Al Sud vivono di assistenza? Sud vivono di assistenza?

Al Sud vivono di assistenza?

In realtà se questa volta mettiamo in correlazione il PIL con la spesa per le Politiche Sociali vediamo, nel grafico seguente, che la correlazione aumenta addirittura a 0,85. Ossia si spende di più per le politiche sociali dove il PIL è maggiore. In questa voce sono comprese le spese di previdenza, interventi in campo sociale, assistenza e beneficienza.

Nel quadrante di quelli con PIL superiore alla media e spesa per politiche sociali inferiore c’è solo il Veneto. Mentre in questo caso ci sono due regioni del centro (Umbria e Marche) che hanno una spesa media superiore e un PIL inferiore alla media nazionale. Ma anche in questo caso siamo prossimi all’incrocio delle rette che dividono il grafico e quindi si tratta di una dimensione trascurabile.

In Lombardia siamo a 8.003 euro anno pro capite in Campania a 5.491. I dipendenti delle istituzioni non profit, secondo l’Istat, sono, nel 2021, 181 per ogni 10.000 abitanti in Lombardia mentre in Campania solo 55. Alla base della diversa occupazione nel non profit tra Lombardia e Campania ci sono questioni antropologiche, come sempre ci fanno credere, o è un problema di risorse?

Al Sud evadono le tasse?

Pare proprio di no, in figura si vede che l’indice di correlazione tra il PIL e le entrate tributarie è addirittura di 0,97. Quello che stupisce è in realtà l’incidenza delle entrate fiscali sul PIL che è praticamente uguale ovunque. Poiché la Costituzione recita all’art. 53 che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” ci saremmo aspettati un aumento della incidenza delle imposte pagate nelle regioni con maggiore PIL Pro capite.

La stima della evasione non è semplice, ma oltre alla evasione c’è anche l’elusione di tante imprese che pagano tasse risibili in Olanda o nei paradisi fiscali europei e che risiedono prevalentemente al Nord e di cui nessuna parla mai.

Il Sacco del Sud

Insomma a guardare i dati più che sacco del Nord dobbiamo parlare di sacco del Sud. Nella tabella seguente riportiamo i dati della spesa pubblica corrente nei vari settori pubblici.

Discorso a parte il gap infrastrutturale tra Nord e Sud.

Mettendo insieme le due cose risulta un insostenibile differenziale di trattamento tra Nord e Sud e, nel caso di Autonomia Differenziata occorre ristabilire la par conditio tra le regioni, perché il Sud non vuole, non può e non deve soccombere.

Ogni anno il Mezzogiorno d’Italia (Sud e Isole) beneficia di una spesa pubblica corrente inferiore di quasi 100 miliardi di euro l’anno in meno rispetto al centro nord e non ha infrastrutture decenti.

In che modo e in quale maniera l’Autonomia Differenziata rappresenta una opportunità per il Sud? Come corregge questi squilibri? Lo chiediamo con forza a tutti i meridionali favorevoli a questa riforma.

Le cause storiche del divario Nord – Sud

L’Unità tra il Piemonte e la Lombardia era chiara da motivare. La Lombardia, come il Veneto, era sotto il dominio austriaco che aveva un’altra lingua e appariva esotico rispetto ai luoghi e quindi la retorica risorgimentale poteva puntare sull’italianità e sull’appartenenza allo stesso popolo. La retorica aveva solidi appigli e non aveva bisogno d’altro che non l’anelito della ricongiunzione delle italiche genti e la Nazione italica aveva bisogno di un unico Stato.

Ma le stesse argomentazioni non potevano valere per giustificare l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla nuova Italia sotto la corona dei Savoia. I Borbone erano una dinastia naturalizzata napoletana da secoli. Tra l’altro essendo il Regno il più grande d’Italia in un primo momento era proprio stato visto come il regno ‘unificatore’, tanto che Giuseppe Verdi compose per Ferdinando II l’inno La Patria.

Ecco quindi la necessità di dipingere il Regno delle Due Sicilie come l’impero del male e i Borbone come la peggiore dinastia in assoluto.

Dopo il Plebiscito la rivolta dei briganti rese necessaria una nuova narrazione che dipingeva dei poveri contadini come antropologicamente portati a delinquere. A questo ci pensò Lombroso a cui la pubblica Università piemontese ha dedicato un museo.

Ma la malastampa sui Borbone e poi sui briganti si riversò infine su tutti i meridionali generando quello che Carlo Levi definiva il complesso di inferiorità dei meridionali.

Non so come altro spiegare il disinteresse delle classi politiche e dirigenti del Sud verso il proprio territorio se non con questo complesso di inferiorità così ben descritto da Levi.

In ogni caso far risalire le origini del divario ai Borbone o alla antropologia dei meridionali non trova spazio nei numeri.

Numeri prodotti dalla Università di Siena e che ci dicono che dal 1871 il divario Nord Sud è peggiorato di circa 30 punti e che alcune regioni come la Campania e la Sicilia che nel 1871 avevano un PIL pro capite sopra la media nazionale (la Campania) o prossima (la Sicilia) ora sono tra le regioni più povere d’Italia e d’Europa e se la logica ha ancora un senso in questo Paese questo significa che le classi dirigenti che sono venute dopo i Borbone per il Sud hanno fatto peggio di loro.

Come è maturato il divario in sintesi

La Basilicata risorgimentale chiedeva due cose al nuovo Stato Unitario: la distribuzione delle terre cosiddette usurpate, retaggio dei diritti feudali, e il collegamento veloce tra lo Ionio e il Tirreno.

La riforma agraria e la distribuzione delle terre avvenne nel 1950, 90 anni dopo la realizzazione della Unità e quando il Paese si lasciva indietro il proprio passato contadino per abbracciare l’industrializzazione e ancora oggi attendiamo la strada di collegamento veloce tra Ionio e Tirreno.

Per decidere il tracciato ferroviario tra Salerno e Reggio Calabria ci vollero trenta anni di discussioni perché al razionale tracciato proposto dalla commissione Lavori Pubblici presieduta dal banchiere milanese Antonio Allievi, detto tracciato interno che valorizzava l’enorme piana tra Metaponto e Sibari, si oppose strenuamente fino ad averla vinta il moliternese Petruccelli della Gattina che con motivazioni ‘singolari’ chiedeva in sostanza l’attuale tracciato ferroviario.

Così si ottennero due effetti: un ritardo enorme rispetto al Nord che nel frattempo veniva riempito di infrastrutture e un tracciato poco utile allo sviluppo del territorio.

L’insieme delle due fece sì che Zanardelli dovette a inizio ‘900 traversare la regione a dorso di mulo lasciandolo interdetto.

Tra il 1950 e il 1970 si sviluppa l’industria per scelta solo al Nord provocando ondate migratorie verso in Nord e quando negli anni ’80 si cercò di recuperare era ormai troppo tardi perché iniziava lo sviluppo del settore dei servizi, poi la globalizzazione e quando finalmente si pensava di mettere mano a qualche infrastruttura al Sud, come la Lauria – Candela si doveva entrare in Europa e tutto fu di nuovo bloccato.

Non però l’Alta Velocità ferroviaria che arriva fino a Napoli, non le inutili autostrade come la BreBeMi o la Pedemontana fatte al Nord.

L’unico periodo in cui la divergenza si attenuò è stato nel periodo in cui l’economia del Sud beneficiava delle rimesse degli emigranti che pensavano di rientrare nella terra di origine e oltre a comperare elettrodomestici per le proprie case costruivano edifici e comperavano terreni. Salvo poi a abbandonare il progetto perché, al contrario dei veneti, le proprie terre di origine erano troppo lontane dai mercati significativi del Nord Ovest.

Una ultima considerazione riguarda la mitologia della Cassa Per il Mezzogiorno e in genere dell’intervento straordinario finanziato in vario modo (FERS o PNRR).

Occorre distinguere cosa è ordinario e cosa è straordinario. Se al Nord una autostrada a 4 corsie è ordinario questo stesso intervento non può essere considerato straordinario al Sud.

La politica dello struzzo e gli intellettuali italiani

Tutta la prima metà dell’800 fu caratterizzata da un insieme di riunioni clandestine di carboneria e massoneria ignote alla maggioranza dei cittadini che promosse il progetto unitario.

Questi gruppi di intellettuali sfuggirono talmente ai radar della politica e dei governi costituiti tanto che proprio i protagonisti di questi ‘circoli’ unitari finirono per assumere posizioni di rilievo nei governi degli Stati preunitari.

Alcuni esempi sono il principe Neri Corsini nel granducato di Toscana e Liborio Romano nel Regno della Due Sicilie. Per non parlare di Francesco De Santis che insegnò alla Nunziatella fino al 1848 tanto da formare i vertici dell’esercito delle Due Sicilie alla causa unitaria e gli effetti si videro solo  una decina di anni dopo.

All’epoca questi movimenti sfuggirono anche ai radar della gran parte della  popolazione e nessun anticorpo al progetto unitario e nessuna reazione sul piano culturale maturò nella società civile degli Stati Preunitari.

Analogamente oggi nessuna reazione sul piano culturale si vede in Italia a un progetto secessionista che dura da più di 40 anni. Anzi i ‘separatisti’ o in una versione più edulcorata gli ‘autonomisti’ occupano da 40 anni posizioni di rilievo nella organizzazione dello Stato.

Parlo del già citato Giancarlo Pagliarini ma anche di Bobo Maroni e in epoche più recenti di Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli, che di là dalle dichiarazioni ufficiali, mi paiono conservare le idee secessioniste della Lega delle origini. Idee secessioniste nascoste allora da parole come ‘devolution’ e oggi da Autonomia.

A queste idee nessun anticorpo pare emergere nella cosiddetta società civile, anzi per lungo tempo le idee della Lega hanno preso piede anche nel ceto dirigente intellettuale di sinistra e di tutti quelli che attribuiscono al Sud il fallimento dello Stato unitario.

Niente di più falso e se non ci si libera da 162 anni di pubblicistica antimeridionale  sarà difficile contrastare sul piano culturale il progetto secessionista.

Certo vedere una Stato italiano compresso tra l’identità europea e quella localistica, costretto da un lato alla cessione di sovranità verso l’Europa e dall’altro alla cessione di sovranità su materie fondamentali a favore delle regioni non fa ben sperare sul futuro unitario del Paese.

Uno Stato costretto a continue mediazioni in Europa e al proprio interno, finirà per assumere su di sé la responsabilità di tutte le inefficienze e i fallimenti e non resterà che la riforma in senso presidenziale della governance generale per tenere formalmente unito il Paese ma che dovrà, per necessità di cose, essere accompagnato da uno stato di polizia.

Come per tutta la prima metà dell’800 nessuna classe intellettuale e dirigente contrastò sul piano culturale e intellettuale la necessità dell’Italia unita oggi nessun intellettuale e nessun appartenente al ceto dirigente politico e non avversa l’idea della autonomia sul piano culturale.

Anzi il virus della Autonomia, o se preferite della secessione, contagia anche vasti strati del ceto intellettuale meridionale che in riunioni più o meno palesi inizia a chiedersi se alla fine questa idea secessionista non convenga anche al Sud, anzi più al Sud che al Nord.

Questa operazione di contrasto sul piano culturale non può non passare attraverso una operazione verità sui conti pubblici e sulle reali ragioni del progressivo divario Nord Sud.

Questa nostra richiesta di referendum ha lo scopo anche di mettere in discussione 162 anni di pubblicistica antimeridionale che attribuisce al Mezzogiorno il fallimento del progetto Unitario.

I quesiti referendari che intendiamo proporre

Per tutte queste, e per ancora altre ragioni, intendiamo opporci al DDL sulla Autonomia Differenziata, non per presa di posizione o per avversità a una parte politica, ma per necessità di sopravvivenza della Basilicata e del Sud.

Ma non possiamo neanche più accontentarci della sopravvivenza. L’Autonomia differenziata ha scoperchiato un vaso di Pandora pieno di tutte le ingiustizie che patiamo al Sud, anche a causa della nostra acquiescenza storica alle ragioni del Nord.

Il nostro NO alla Autonomia Differenziata è anche l’inizio di un ragionamento per individuare il nostro piano per il futuro, il nostro piano di sviluppo e questi referendum sono necessari e servono per aprire un dibattito pubblico sulle nostre prospettive.

È un NO per affermare l’impossibilità senza infrastrutture e con una spesa pubblica corrente inferiore di quasi 5.000 euro anno per abitante rispetto al centro nord di invertire la rotta e ridurre il divario Nord Sud Autonomia o non Autonomia.

Non è un NO di retroguardia di chi non vuole cambiare le cose, ma un NO di rilancio per rendere evidenti le nostre necessità e il nostro potenziale di sviluppo: un NO per cambiare le cose.

È anche un modo per dire che non esistono dei cittadini italiani più uguali di altri ed è un modo per dire che se si sono espressi i cittadini lombardi e veneti con i referendum sulla richiesta di autonomia è giusto che possano esprimersi anche i cittadini lucani, sperando di essere di esempio per le altre regioni del Sud.

È anche un fatto di dignità umana, un fatto di rispetto verso noi stessi la nostra storia e le future generazioni.

Questi i quesiti, dando ampia disponibilità a trovare con la Commissione una stesura definitiva che sia coerente con gli assetti normativi attuali:

  1. Opposizione al DDL sulla Autonomia Differenziata

(Sulla legittimità e difetto di rappresentanza della adesione della Regione Basilicata al DDL sulla Autonomia Differenziata formulata da Vito Bardi nella Conferenza Stato Regioni).

Quesito:  Volete voi che la Regione Basilicata si opponga al DDL sulla Autonomia Differenziata e nel caso di sua approvazione presenti ricorso alla Corte Costituzionale?

  1. Esercizio dell’autonomia su tutte le materie previste

(Sulla completa attuazione della Autonomia e sulla par condicio tra le regioni italiane sulla situazione di partenza al momento della approvazione della autonomia).

Quesito:   Volete voi che, nella denegata ipotesi in cui il DDL sulla Autonomia Differenziata venga approvato, la Regione Basilicata chieda l’autonomia su tutte le 23 materie di legislazione concorrente previste dall’art. 117 della Costituzione corredate da una dotazione economica e infrastrutturale di partenza in modo da garantire la par condicio con le altre regioni?

  1. Tassazione dei proventi delle estrazioni e fonti energetiche lucane

(Sull’utilizzo delle tasse nazionali maturate sul territorio regionale in analogia sulla pretesa delle regioni del nord di finanziare l’autonomia regionale con le risorse provenienti da tasse nazionali maturate sui territori regionali).

Quesito:  Volete voi che nell’ambito del DDL Calderoli la Regione Basilicata, qualora diventi legge, eserciti la richiesta di Autonomia  Differenziata in relazione alle Materie Energetiche  e che richieda di trattenere tutte le tasse nazionali sui profitti delle estrazioni di combustibili fossili, la loro raffinazione e tutte le imposte e tasse derivanti dalla produzione e distribuzione di energia da tutte le fonti possibili (termico, eolico, idroelettrico, fotovoltaico) e imponga alle compagnie petrolifere la costituzione di un fondo per il ripristino ambientale dei centri oli e dei pozzi dismessi e incidentati?

  1. Ridefinizione dei LEA

(Sulla penalizzazione della regione Basilicata nella attuale definizione dei LEA).

Quesito: Volete voi che la Regione Basilicata presenti richiesta di ridefinizione dei LEA che non tengono conto delle economie di scala e di scopo penalizzando una regione come la Basilicata che è grande come la metà del Veneto e con un numero di abitanti di un decimo del Veneto?

  1. Trasparenza sulla determinazione dei LEP

(Sulla democrazia e trasparenza e sulla pretesa del governo di secretare atti che smentiscono gran parte dei luoghi comuni sul Mezzogiorno e fanno comprendere alla pubblica opinione le reali motivazioni del progetto di legge sulla Autonomia Differenziata)

Quesito: Volete voi che la Regione Basilicata monitori costantemente i lavori della Commissione per i LEP e ne renda pubblici i documenti e i verbali e che chieda la desecretazione di tutti i documenti relativi alla determinazione dei LEP, dei Fondi Perequativi e di tutti gli altri documenti utili per la comprensione di tutti gli aspetti relativi alla Autonomia Differenziata?

Osservazioni sullo Statuto e sul rendere effettiva la partecipazione democratica

Poiché manca ancora la legge attuativa dello Statuto ci permettiamo alcuni sommessi spunti propositivi.

Il più semplice riguarda la possibilità, peraltro già prevista in sede nazionale, di raccogliere le firme on line ( DPCM 9 settembre 2022 ) per tutte le tipologie di partecipazione democratica (Capo 1 Statuto Regione Basilicata).

Più complesso il quadro generale degli istituti di partecipazione con riguardo a due questioni.

La prima è la difformità, regione per regione, dei limiti di accesso e delle forme di partecipazione. Viene spontaneo chiedersi se la Costituzione, che garantisce parità di diritti per tutti i cittadini italiani, venga rispettata nel momento in cui i diritti di partecipazione sono così variegati da regione a regione sia nelle forme che nei limiti di accesso.

A questo link un quadro sinottico di confronto tra le regioni ( https://www.riformeistituzionali.gov.it/media/1402/allegato-1-schede-regionali-istituti-partecipazione.pdf ) . In particolare sui referendum consultivi l’interpretazione di questo istituto differisce molto tra le regioni. In molte si distingue tra referendum consultivo obbligatorio ( art. 133, secondo comma, della Costituzione ) e facoltativo dove spesso non si fa riferimento alla raccolta delle firme e sembra che l’iniziativa sia consentita solo ai consiglieri regionali e Presidenti di Regione.

Emblematici i referendum consultivi del 2017 in materia di autonomia differenziata di Lombardia e Veneto dove l’iniziativa fu presa direttamente dai  Presidenti delle rispettive Giunta Regionale.

La seconda riguarda la Basilicata che  ha una vera anomalia per il numero di firme necessarie per le Leggi di Iniziativa Popolare (LIP) vedi tabella seguente.

In altri termini se la Regione Basilicata applicasse l’incidenza delle firme necessarie per la LIP sul numero di abitanti Nazionale, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna la situazione sarebbe la seguente (invece delle 4000 firme richieste)In sintesi andrebbe significativamente abbassato il numero di firme necessarie per la LIP, ma questo numero è previsto già in Statuto, mentre non è previsto nulla in Statuto per quanto riguarda il referendum consultivo.

Quindi al fine di facilitare l’accesso alle forme di democrazia diretta prevista in statuto e nelle more delle necessarie modifiche statutarie si potrebbe ridurre il numero delle firme richieste sui referendum consultivi da 5.000 a una cifra compresa tra le 500 firme e le 1000.

Occorre infine affrontare il tema della ammissibilità

I referendum del 2017 di Lombardia e Veneto hanno avuto una lunga gestazione che ha portato alla  sentenza della Corte Costituzionale n. 118 del 2015.

In ogni caso i quesiti referendari costituiscono un precedente.

Inoltre la Consulta della Regione Emilia Romagna ha approvato la raccolta delle firme per la LIP con un testo che, se approvato dai referendum, blocca ogni iniziativa di richiesta di autonomia differenziata.

Nel seguito il comunicato stampa  In allegato delibera e relativa comunicazione di ammissibilità della raccolta firme in Emilia Romagna ricevuti dal Comitato No Ad dell’Emilia Romagna.

Conclusioni

Egregio Presidente, consiglieri tutti, siete i nostri rappresentanti da noi liberamente scelti per la difesa degli interessi della nostra comunità.

Non abbiamo richieste personali, non abbiamo altre ambizioni se non metterci a vostra disposizione e a disposizione della intera comunità a beneficio di questa piccola ma grande regione perché pensiamo che meriti un futuro migliore di quello che è stato il suo passato.

Ci saranno a breve le prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale, speriamo di ritrovarvi tutti nel prossimo Consiglio e a voi chiediamo aiuto.

Ma non potremmo fare a meno di chiedere a tutte le forze politiche e a tutti i candidati a presidente di questa Regione conto del loro orientamento sulla questione della autonomia differenziata e come intendono fare fronte alle sfide per il futuro della nostra terra.

Allegato 1  All. 3 – Prot–21-07-2023-0018565-U – Allegato N° 1 – Delibera-n.-13-del-2023-pdl-autonomia-differenziata-timbrato Emilia

Allegato 2 alla 4 – Prot–21-07-2023-0018565-U – File primario – comunicazione-ammissibilità-timbrato Emilia (1)

AUDIZIONE DEL 27 SETTEMBRE 2023 DEL COMITATO REFERENDUM BASILICATA PRESSO LA PRIMA COMMISSIONE CONSILIARE PERMANENTE AFFARI ISTITUZIONALI, COMPONENTI

Presidente: Gianuario Aliandro – Gruppo Lega Salvini Basilicata

Membri:      Gerardo Bellettieri – Gruppo Forza Italia per Bardi

Gerardina SIleo – Gruppo Misto

Gino Giorgetti – Gruppo Misto

Massimo Zullino – Gruppo Basilicata Oltre

Vincenzo Baldassarre – Gruppo Idea Per un’altra Basilicata

Piergiorgio Quarto – Gruppo Fratelli D’Italia

Maurizio Marcello Giorgio Pittella – Gruppo Prospettive Lucane

Roberto Cifarelli – Gruppo Comunità Democratica – Partito Democratico

Mario Polese Gruppo-  Italia Viva Renew Europe

Gianni Leggieri – Gruppo Movimento 5S

RELATORI COMITATO REFERENDUM

Pietro de Sarlo

Valentino Romano

Potenza 27 settembre 2023

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